Un film riapre il caso di Carlo Giuliani
Una pistola
difettosa, i carabinieri
sosia, un bossolo mai
analizzato. Tutte le
zone d'ombra di Piazza
Alimonda in The Summit
di Fracassi e Lauria.
La storia di Carlo
non è un cold case, le
giornate del luglio
genovese ci dicono
quanto fu a rischio la
vita dei manifestanti e
la democrazia di questo
Paese. E gli attori di
quel luglio sono ancora
lì. Eccetto Carlo.
Pum! Pum! Due
spari e poi un grido
disperato: «Nooo!
Bastardi! L'avete
ucciso!». E poi, ancora,
due carabinieri sosia.
Un bossolo mai
analizzato. L'assalto a
una camionetta. La paura
degli occupanti. Anzi,
la paura di chi si
trovava là intorno. Un
estintore di troppo. Un
sasso apparso dal nulla.
Un viaggio in ospedale.
E, infine, una pistola
avvolta dal mistero.
Questa è la storia di
una trappola per un
ragazzo minuto e per
tutti quelli come lui.
E' la storia di Carlo
Giuliani che dodici anni
dopo viene raccontata di
nuovo e le domande che
pone meriterebbero
risposte da un
tribunale. Ben altro che
l'archiviazione
posticcia disposta due
anni dopo.
A raccontarla di
nuovo è un docu-film che
verrà presentato alla
stampa domani, in
contemporanea a Roma e
Milano, prima di
prendere la via delle
sale. Franco Fracassi e
Massimo Lauria, cineasti
e giornalisti di Popoff,
hanno lavorato più di
tre anni a "The summit",
presentato in anteprima
a Berlino dove la
critica ne apprezzò la
carica dirompente delle
immagini inedite e delle
decine di interviste.
Genova, 20 luglio
2001. Ore 17.27. Due
colpi di pistola
venivano sparati a
brevissima distanza
temporale da una pistola
che si trovava
all'interno del Defender.
Carlo Giuliani si
trovava a oltre cinque
metri dalla jeep. Troppo
lontano per essere
realmente minaccioso.
Uno dei due proiettili
colpì il volto del
ragazzo allo zigomo
sinistro.
«Due colpi sparati
ad altezza d'uomo - dirà
il perito balistico
Claudio Gentile ai due
filmaker - sul muro
della canonica della
chiesa di piazza
Alimonda venne rinvenuta
una traccia da
proiettile. Vennero
effettuati dei prelievi
d'intonaco. Esaminati al
microscopio elettronico
venne stabilito che
c'erano le tracce di
piombo e di altri
metalli, per cui
sicuramente era
l'impatto di un
proiettile. Anche quel
colpo era passato ad
altezza d'uomo, ma in
una direzione
completamente diversa
rispetto a quello
sparato a Giuliani».
Chi c'era a
bordo?
In una foto del
Defender si vedeva
chiaramente un
carabiniere che si
teneva la testa tra le
mani girava le spalle a
Giuliani. Si è sempre
detto che si trattava
del carabiniere Dario
Raffone, al momento
dello sparo a bordo del
Defender. Ma se fosse
stato il carabiniere
Mario Placanica, colui
che si è auto accusato
di aver ucciso Carlo? In
questo caso l'omicida
sarebbe stato qualcun
altro. Seppure ferito,
Raffone si presenterà al
pronto soccorso solo la
mattina seguente.
Secondo Giuliano
Giuliani, il padre di
Carlo, «i carabinieri
hanno impiegato la notte
per trovare un sosia di
Placanica per poter
inscenare un finto
scenario, che vedeva
Placanica come assassino
e Raffone come
comprimario innocente».
A sparare era stato un
ufficiale dell'Arma, che
andava protetto. Anche
perché in questo caso
non avrebbe sparato
certamente per legittima
difesa. Si voleva il
morto».
Il perito
principale della
famiglia Giuliani si
chiama Roberto
Ciabattoni, lavora
all'Istituto centrale
per il restauro come
fisico diagnostico.
Ciabattoni ha un'indole
analitica. Ed è anche
molto bravo a spiegare
le cose: «Se questo
nella foto non è Raffone,
ma Placanica. Se lui
stava sopra, chi stava
sparando?». Il balistico
Gentile osserva la
pistola con Fracassi e
Lauria: «Ecco la pistola
in atto di sparo. Per
svariato tempo, per
parecchi secondi, è in
questa posizione. Non è
certo una posizione di
impugnatura istintiva o
di persona presa dal
panico, ma è molto più
assimilabile ad una
posizione di tiro
consolidata da chi ha
una certa esperienza».
Ciabattoni osserva
nel film che la persona
che spara indossa un
passamontagna in
dotazione ad alcuni
corpi dei carabinieri,
«e comunque solo ed
esclusivamente agli
ufficiali e non agli
uomini ordinari di
truppa».
Il numero degli
occupanti del mezzo era
importante: Massimiliano
Monai, manifestante
genovese, si trovava
vicino a Carlo al
momento dello sparo
ricorda solo di aver
visto Placanica ma lo
vide «accucciato che si
teneva la testa con le
mani, inerme». Jim
Mattews, no global
inglese: «È difficile
dirlo. Penso fossero
quattro o cinque».
Ufficialmente su quella
jeep c'erano tre
carabinieri: Filippo
Cavataio (l'autista),
Raffone e Placanica.
Forse non è il numero
giusto.
Ma allora perché
nascondere il quarto
uomo? Era forse stato
lui a sparare? «La
posizione è di una
persona che sta sotto,
adagiata su eventuali
cose che ci sono, perché
abbiamo visto dalle foto
di repertazione del
Defender che era pieno
di oggetti - riprende
Ciabattoni - quindi, la
persona adagiata su
queste cose, sta in
posizione contratta
perché non può stare
stesa. E' leggermente
rannicchiata con i piedi
che si alzano verso il
vetro posteriore. E c'ha
una persona sopra che lo
copre quasi
completamente, e questa
persona sta in posizione
di alzare la testa, con
la mano sinistra
scoprirsi il volto.
Questo è visibile in una
foto della consulenza e
spara senza però vedere
dove sta sparando. Spara
per forza a una altezza
che non può essere in
aria, perché sennò
avrebbe bucato il tetto
della camionetta».
Forse Giuliano
Giuliani potrebbe
ragione. Però, per il
momento prove decisive
non sono state trovate.
Troppo indaffarati a
trovare elementi per
l'archiviazione.
Cominciano a
esserci troppe stranezze
C'è, però, ancora
un'altra cosa curiosa.
Ed è già la terza. Mario
Placanica, dopo essere
stato assolto per
legittima difesa (per
essere precisi il
procedimento era stato
archiviato in fase
istruttoria), e dopo
essersi dimesso
dall'Arma, ha deciso di
far riaprire il
procedimento penale.
Placanica ha già fornito
sei versioni diverse
della stessa storia.
Sulla sua credibilità,
quindi, ci sono forti
dubbi. Però, resta il
fatto che è disposto a
rischiare la galera pur
di far verificare da un
giudice l'attendibilità
delle sue affermazioni.
Il suo avvocato è
Carlo Taormina, che tra
l'altro nel periodo del
G8 era sottosegretario
all'Interno. Anche lui
risponde alle domande di
Fracassi e Lauria per
dire che, se il
proiettile estratto dal
capo di Carlo fosse di
tipo non "camiciato",
non rivestito, allora
«non è proveniente dalla
pistola di Placanica».
E il balistico
Gentile concorda, senza
saperlo, con Taormina:
«Si capisce se un
proiettile è stato
sparato da un'arma se le
righe che porta quel
proiettile sono
riconducibili alla canna
di quella stessa arma.
Purtroppo il proiettile
che ha ucciso Carlo
Giuliani è rimasto nella
sua testa e non è mai
stato repertato». Quindi
non si può sapere se
apparteneva all'arma di
Placanica.
Pensandoci meglio:
non è stato mai
repertato? Avete
presente un qualsiasi
film su un delitto? Qual
è una delle prime cose
che vengono fatte?
L'autopsia e l'analisi
dei proiettili. Lo sa
anche un bambino che se
c'è il proiettile
piantato nel cranio del
morto va estratto ed
analizzato. Ebbene, la
scientifica in questo
caso se l'è
semplicemente scordato
nella testa di Carlo.
Haidi Giuliani ci
disse in proposito:
«Quando si trattava di
fare il funerale a Carlo
ci suggerirono che,
siccome non c'era posto,
la cosa migliore era
cremarlo. Ci suggerirono
una cosa subdola: "Se
voi non foste credenti
potreste cremarlo".
All'epoca eravamo
sconvolti. Non
riflettemmo sulle
conseguenze di quella
scelta. E così demmo
l'assenso. Oggi, grazie
a quella scelta, e a
quel suggerimento, non è
più possibile fare
autopsie. E il
proiettile non è stato
repertato».
Le
sorprese non sono
finite.
«Proiettile e
bossolo vanno
considerati come due
entità separate». Il
primo fornisce dice
ancora Gentile». Sul
primo, infatti si
leggono le righe della
canna. Il bossolo si può
ricondurre a una
specifica arma se porta
tutte le impronte
balistiche primarie,
delle quali tre sono
impresse sul carrello
otturatore, che può
essere totalmente
interscambiabile, ed una
deriva dall'espulsore
che è calettato. Il
fusto su cui è montato
l'espulsore può essere
smontato per cui,
mantenendo il
contrassegno del fusto
originario, può essere
montato un espulsore
diverso. Questo
espulsore ha in mezzo
due spine. Di queste due
spine, quella più
piccola che sembra un
cilindretto non può
sfuggire, anche se
rimaneggiata, perché è
elastica e si espande
all'interno del suo
foro. L'altra, invece, è
trattenuta in sede
perché viene ribattuto
leggermente il metallo
del fusto sulla testa di
quel chiodo. Ma se
questa ribattitura non è
fatta bene, o
addirittura si
dimenticano di farla,
siccome non entra a
pressione, cade giù,
semplicemente per forza
di gravità».
Durante lo
"smontaggio di campagna"
(fatto manualmente,
senza attrezzi), è
successo proprio questo.
La spina che ha la
funzione di espellere il
bossolo lontano
dall'arma, è caduta, per
semplice gravità, invece
doveva essere rimanere
fissa. «E' una cosa
anomala», ripete il
perito. «Ci ha fatto
subito pensare che su
quell'organo si fosse
intervenuti». La pistola
in questione venne
consegnata dai
carabinieri al
magistrato solo molti
giorni dopo. L'Arma
spiegò che la pistola,
prima di Genova, era
nello stock spedito alla
Fabbrica d'armi di Terni
per una revisione
generale. Lì si sarebbe
verificato l'errore
dell'armaiolo. Ma lì non
vengono registrate le
operazioni effettuate.
È una
spiegazione plausibile?
«No».
Le è mai capitato
un caso del genere? «Una
sola volta nella mia
carriera. In un altro
caso di omicidio i
periti riscontrarono che
la spina, la stessa
spina che nel caso
Giuliani era caduta
liberamente, lì era
trattenuta da ribattute
anomale, che erano state
fatte successivamente.
In quel caso l'imputato
fu accusato di aver
modificato la propria
arma per non farla
identificare come l'arma
dell'omicidio, e venne
condannato». (continua a
leggere su
popoff)
Checchino Antonini
Ecco il trailer
del film, in uscita
nelle sale dal 21
febbraio
Webmaster: Carlo Anibaldi