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Il primo aristocratico degli Stati Uniti

John P. Morgan, il banchiere che inventò il Novecento

Alberto Alfredo Tristano

Tenne tra le sue mani una ricchezza grandissima che diede impulso alla grandezza di tutta l’America

 

 

J.P. Morgan che assalta un fotografo

Hartford se ne sta operosa sulle rive del Connecticut. Piccola, ma tutt’altro che trascurabile città d’America, dal momento che le ha fornito due icone irrinunciabili della sua epopea: Mr. Samuel Colt, con le sue pistole puntate sul Far West, e Mr. John Pierpont Morgan, con i suoi dollari che potevano quasi comprare il mondo. E se il primo è oggi confinato in un immaginario fiammante ormai esaurito, il nome del secondo campeggia ancora inesauribile sulle pagine finanziarie del pianeta, sui mercati, sulle borse. Morgan c’è, Morgan è fra noi, come un eterno dio potente del capitalismo. Ma chi era JP Morgan?

Cent’anni fa l’Hotel Plaza di Roma si chiamava ancora Grande Albergo, e sul finire di marzo di quel 1913 nella suite reale alloggiava il miliardario più potente del pianeta. JP Morgan vi era giunto da pochi giorni, dopo un soggiorno in Egitto. Stava già molto male, i nervi gli erano saltati, la sua coscienza di uomo di 75 anni era approdata ai momenti semifinali. È negli ultimi suoi giorni che Hans Tuzzi sceglie di raccontarlo nel suo recentissimo romanzo edito da Skira Morte di un magnate americano. L’autore dà voce al tycoon morente e a un suo segretario immaginario, per raccontare la fine e a ritroso le imprese di un simbolo sopravvivente della ricchezza universale.

Finanza e arte erano state le passioni voraci e autentiche del vecchio Morgan. Le sue collezioni d’arte erano leggendarie, la raccolta di libri antichi rendeva il suo patrimonio il più prezioso tra i privati, ancora più imponenti risuonavano le sue imprese monetarie. Lorenzo il Magnifico, lo chiamavano i giornali anglosassoni, e le vignette dell’epoca lo dipingevano come un cordiale signore americano che tra le braccia accudiva come un bambino la Terra. 

L’America non ha sangue blu, ma se c’era un’aristocrazia era quella dei Morgan. Che non incarnavano l’epica del “self made man”: loro erano ricchi da duecento anni, a JP toccò, in un’epoca ormai mediatizzata, rendere canonico e planetario quello status familiare.

La ricchezza non è tutta uguale. Scrive Tuzzi in un bel passaggio del libro: «Carnegie fu l’acciaio, Gould si buttò sulle infrastrutture – ferrovie e telegrafo – Rockfeller fu il petroliere. E Morgan? Le banche? Ma le banche esistono da secoli». Infatti fu molto di più: inventò il Novecento. «John Pierpont Morgan ha creato un’era. Egli ha saputo orchestrare e armonizzare l’economia planetaria grazie a un sistema finanziario internazionale: egli ha consolidato in un sistema di governo economico le energie dell’acciaio, del petrolio e della velocità». Il mondo nelle sue mani.

Non fu per caso che subito dopo la sua scomparsa gli Stati Uniti si decisero a creare una struttura chiamata Federal Reserve: chi avrebbe altrimenti regolato i traffici dell’immenso paese e sventato i fantasmi di un eventuale crack? Morgan era morto e non c’era più nessuno che sarebbe stato in grado di fare come lui nel 1907: il Paese ballava sull’orlo della bancarotta, JP letteralmente lo salvò. Accadde nella sua celeberrima Biblioteca, tempio oggi della cultura americana. Era il 2 novembre. Nella Stanza Est sistemò i banchieri, nella Stanza Ovest i capitani d’industria. Passò il giorno e passò la notte, JP Morgan rintanato da solo nel suo studio confessò: «Io non so cosa fare, ma saprò riconoscerlo fra tante voci quando lo sentirò». All’alba il tracollo americano fu sventato.

Fosse allora esistito il diritto d’autore, JP Morgan sarebbe diventato comunque ricco, essendo nipote di quel James Pierpont che in un giorno imprecisato del 1857 compose “Jingle Bells”. Un destino di fortuna accompagnava il nome del magnate, e come tutte le fortune aveva i suoi segni e i suoi presagi, di buona o cattiva sorte. Il naso, per esempio, un monumento protuberante cresciuto in pieno viso durante l’adolescenza: i medici lo avrebbero voluto ridurre con un intervento, lui non volle mai, pur odiandolo, perché lì immaginava localizzati tutti i malesseri che altrimenti avrebbero invaso il resto del corpo. Ancora giovane conobbe i morsi della depressione: per lui certi anni duravano nove mesi, i tre rimanenti erano assorbiti dal buio dell’anima, che JP leniva con viaggi intorno al globo.

Ebbe amori molteplici, disordinati e sfortunati, molti collezionati fuori dai matrimoni, ma sempre seguendo la legge per cui un gentiluomo paga i propri debiti, e soprattutto un gentiluomo non dà scandalo. Visse pienamente il livello superiore che le sue risorse gli consentivano, ma ci fu un evento che lo mise di fronte alla sua piccolezza di uomo: inaggirabile stato anche nel pieno del potere. Fu la massima sciagura che di quegli anni si ricordi. Il simbolo stesso della fine ingloriosa. Nell’aprile del 1912 affondava il Titanic. E il Titanic era roba sua. Qualsiasi impresa, anche la più “titanica”, non è al di sopra della possibilità del fallimento. Anche se chi la compie è il padrone del mondo, resta sempre un uomo. Solo un uomo.

In quell’anno, il suo ultimo di vita, la tenuta nervosa conobbe un rapido declinare. Tuzzi, immaginando le sue parole interiori nell’ultima agonia, fa dire al vecchio Morgan allettato nel Grande Albergo: «Io... ecco, a volte, nel disvelarsi improvviso del deserto, in Egitto, avverto, nel silenzio, nella solitudine, nel ripetuto e monotono fuggire di dune, nel mormorare della sabbia al vento, avverto come sia nato il monoteismo. Ora, pensa al deserto di notte, e poi anima quelle dune, fanne onde, un oceano: un oceano notturno sotto un cielo senza costellazioni, un abisso insondabile dal quale emergono silenziose schiere di mostri. Questa è la depressione».

Fuggirono nel pensiero gli affari intorno al mondo, la caccia ai tesori dell’arte con la fidata e gelosa amicizia con Belle da Costa Greene, incantevole bibliotecaria e prima responsabile della Collezione Morgan. Un velo appannò tutto, e tutto si perse. JP era morto. Nell’ultimo giorno di marzo del 1913. A Roma, un tempo capitale del mondo. Ed era come se risuonassero quelle parole lontane ed eterne di Adriano: «Animula vagula blandula...». Il commiato di un imperatore. 




 

 

 

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