Premesso che certamente la
ripresa degli investimenti pubblici è
fondamentale, a mio avviso il massimo
dell'elaborazione in materia di crescita non può
essere quella sorta di keynesianesimo alterato,
impoverito, che sembra essere l'unica strada
possibile di ripresa di un minimo di
flessibilità di bilancio per Monti e la
Commissione Europea. In questa impostazione,
basata sulla golden o sulla copper rule, gli
unici investimenti pubblici che possono essere
sdoganati rispetto alla regola del pareggio di
bilancio sono quelli che agiscono sui fattori di
competitività dell'offerta (R&S, infrastrutture
strategiche, istruzione e formazione, reti Ict
ed energetico/ambientali) e che quindi hanno
effetti sulla produttività, nell'ipotesi
sottostante che lo shock di produttività
comporti effetti di sostituzione e di reddito in
grado di riportare verso l'alto la curva della
crescita, quindi l'occupazione e la domanda.
Questo tipo di keynesianesimo "povero" è infatti
aggiustato per essere coerente con gli schemi
neoclassici più moderni, come quelli elaborati
da Lucas e Sargent nella NMC. Sono infatti
perfettamente coerenti con le teorie del "real
business cycle" emerse negli anni ottanta come
applicazioni della NMC e della cosiddetta
critica di Lucas ai modelli macroeconometrici
utilizzati dalla programmazione economica
keynesiana, quindi coerenti con una rifondazione
microeconomica delle teorie del ciclo, utile a
supportare un approccio neoliberista di politica
economica. Tali modelli, che hanno anche
generato una classe di metodi statistici di
previsione del ciclo (il più importante dei
quali è il filtro di Hodrick/Prescott) ci dicono
sostanzialmente che le fluttuazioni del ciclo
dipendono da shock esogeni, dal lato
dell'offerta che comportano, come risposta
efficiente da parte di agenti supposti
razionali, una serie di decisioni produttive, di
consumo e di investimento o risparmio che
generano la fluttuazione ciclica. In altri
termini, la fase recessiva del ciclo sarebbe,
secondo tali modelli, una risposta efficiente a
uno shock esogeno che incide negativamente sulla
competitività, ovvero sulla produttività dei
fattori, e che serve a ricostruire le condizioni
per la ripresa della produttività, tramite un
riaggiustamento verso il basso del costo dei
fattori per unità di prodotto. Per certi
aspetti, quindi, il modello di riferimento di
Monti, di Barroso e della Merkel ritiene che una
recessione sa una sorta di meccanismo di
aggiustamento, una auto-terapia del sistema,
perturbato da un evento anomalo esterno. Non lo
diranno mai, per ovvi motivi
politico/elettorali, ma per loro una recessione,
anche drammatica, è un modo per riequilibrare
gli scompensi interni al sistema.
Una spiegazione dell'attuale depressione
coerente con tali teorie è quindi che la bolla
immobiliare/finanziaria (anzi, le diverse bolle
succedutesi dal 2007 ad oggi) ha creato uno
shock sulla quantità e qualità di credito sulla
struttura dei tassi di interesse. Tale shock
esterno ha quindi prodotto, come razionale
risposta degli agenti economici, una contrazione
degli investimenti, un conseguente peggioramento
del rapporto fra produttività e costo dei
fattori (variabile correlata ovviamente agli
investimenti) e quindi una riduzione del livello
di attività produttiva, con effetti
sull'occupazione e la domanda.
Ora, e questo è il punto più
importante da comprendere, tale impostazione NON
ESCLUDE interventi di politica economica.
Semplicemente, esclude interventi di politica
economica dal lato della domanda. Le teorie del
real business cycle, infatti, prevedono la
necessità che il soggetto di politica economica
faccia investimenti pubblici, ma soltanto dal
lato del miglioramento/irrobustimento delle
condizioni di contesto della libera competizione
di mercato, intervenendo cioè su quegli elementi
che consentano di assorbire gli effetti negativi
sulla produttività totale dei fattori indotti
dallo shock esogeno. Quindi, investimenti
pubblici su infrastrutture più o meno presunte
"strategiche" (TAV) o su R&S, innovazione
tecnologica, formazione continua, reti
telematiche ed energetiche, sono ben accetti, se
non necessari. Se non sono stati fatti ancora in
dose sufficiente, è solo perché l'esigenza di
stabilizzare le aspettative dei mercati
finanziari riguardo alla crisi del debito
sovrano ha privilegiato una politica di tagli su
tutto. E perché una delle condizioni preliminari
per "riassorbire" lo shock esogeno era quella di
imporre una ristrutturazione sociale, con
l'obiettivo di accrescere la produttività del
lavoro rispetto al suo costo. E ciò richiede
anche uno smantellamento dei diritti del lavoro,
per renderlo più ricattabile e sfruttabile. Ed
inoltre, anche perché è prevalsa la
preoccupazione di riassorbire gli effetti dello
shock sul sistema creditizio, e ciò spiega
perché il quantitative easing già varato nel
2011 dalla Bce non ha prodotto alcun effetto
sull'economia reale, così come non lo produrrà
nemmeno l'attuale nuovo meccanismo di acquisto
di titoli da parte della Bce: tali sistemi
servono solo per tenere in piedi il sistema
creditizio, non per rilanciare la crescita (cosa
che è impossibile, atteso che i mercati monetari
europei si trovano in una condizione simile alla
trappola della liquidità: le iniezioni di
liquidità aggiuntiva non generano modifiche nei
comportamenti di credito delle banche, i cui
assetti finanziari e patrimoniali sono troppo
compromessi, né sulla propensione
all'investimento, e quindi sulla domanda di
credito, da parte delle imprese, le cui
aspettative di mercato sono troppo depresse).
Ma possiamo esserne certi: la fase 2 del
montismo, che nel nostro Paese sarà interpretata
da un centrosinistra organico a tale disegno,
punterà proprio su investimenti pubblici "dal
lato dell'offerta". E quindi è del tutto
prevedibile che, in sede europea, i Governi di
Hollande e di una grosse koalition con dentro
anche la Spd di Steinbruck faranno spazio a tali
politiche, adottando meccanismi di golden o di
copper rule.
Ciò che tale impostazione
proibisce sono le politiche di spesa mirate
direttamente a sostenere la domanda per consumi.
Infatti, il riaggiustamento del ciclo dopo lo
shock dipende, dai modelli di real business
cycle, proprio dai meccanismi di prezzo e di
salario sui quali una politica di sostegno ai
redditi ed ai consumi genererebbe effetti
destabilizzanti sulle aspettative degli
operatori, impedendo loro di "riaggiustarsi" in
modo razionale.
La crisi attuale, però, pur
essendo partita da fattori finanziari, è
degenerata in una crisi di sovrapproduzione, per
cui la spesa sociale e redistributiva non può
essere scartata, per il semplice motivo che
occorre riportare dentro il circuito della
domanda aggregata e del reddito quote crescenti
di popolazione che via via ne sono escluse.
Altrimenti, l'unica via d'uscita dalla crisi
sarebbe quella di spingere ulteriormente sulla
ristrutturazione sociale in atto, al fine di
acquisire una competitività di costo sufficiente
a competere sui mercati delle economie BRICS,
portando le nostre società nel terzo mondo.
Quindi il keynesianesimo imbastardito per essere
reso coerente con l'approccio dei modelli
liberisti, e che impedisce politiche
redistributive e di sostegno ai consumi, non ci
farà uscire dalla crisi, a meno di non ridurci
al livello del Cile degli anni di Pinochet.
Oltre alle politiche di sostegno
alla domanda per consumi, ciò che l'approccio
del real business cycle impedisce, sono le
politiche di regolamentazione dei mercati. Una
regolamentazione stringente dei mercati
finanziari, tipo Dodd-Frank Act, una limitazione
dell'operatività sui mercati finanziari, tipo la
Volcker Rule oppure il Glass-Steagall Act, sono
inconcepibili perché il riaggiustamento dei
mercati allo shock esogeno sarebbe reso, secondo
tale approccio, meno flessibile proprio dalle
regolamentazioni pubbliche.
Quindi, chi si stupisce perché nella carta di
intenti del PD-SEL-PSI non si parla di reddito
minimo garantito, di sostegno ai consumi, di
regolamentazione dei mercati finanziari, è
servito: tali politiche sono proibite dal
modello macroeconomico del ciclo sottostante,
modello profondamente liberista ed anti
keynesiano. Anche se si traveste di un
keynesianesimo di facciata.
Lo stesso keynesianesimo di
facciata informa la filosofia di fondo del “growth
compact”, cioè il documento comunitario sulla
crescita recentemente proposto a Bruxelles. Al
di là del fatto che è una specie di carta di
intenti (vanno di moda di questi tempi) che
richiama proposte già fatte e non ancora
implementate, o anticipa proposte future, e non
ha un quadro finanziario (anche perché il
bilancio Ue 2013 è in fase di discussione, così
come anche i fondi strutturali, ovviamente) è
l'impostazione teorica che è erronea: si
continua a puntare sul rafforzamento dei fattori
di competitività dal lato dell'offerta
(infrastrutture, apertura e liberalizzazione dei
mercati, mobilità transnazionale dei fattori,
costi dell'energia, omogeneizzaizone delle basi
fiscali per le imposte sulle imprese, ecc.) in
una fase in cui la crisi è di sovrapproduzione,
ed anche la crescita della domanda dei mercati
emergenti rallenta, mancano le azioni per il
rilancio della domanda, ed è completamente
assente il capitolo sociale (se non per qualche
modesta azione di rafforzamento di Eures, o di
omogeneizzazione dei trattamenti pensionistici,
ma anche queste inquadrate nella filosofia di
liberalizzazione/apertura dei mercati, cioè
affette da un approccio supply/side, che non
solo non è redistributivo, in un momento in cui
lo schiantamento dei ceti medi produce una
distribuzione dei redditi ad "L", ma è anche
inadeguato alla stessa crescita.
Dov'è il limite oltre il quale si passa ad
un keynesianesimo "de noantri", cioè una
giustificazione per lo spreco ed il
parassitismo? Intanto dove non si utilizzano i
criteri dello stop and go, per cui la spesa
pubblica rimane alta anche nelle fasi di ripresa
del ciclo, quando invece i cosiddetti
ammortizzatori automatici andrebbero
definanziati, così come più ingenerale le
componenti più sensibile al ciclo della spesa
pubblica (tipicamente, gli investimenti in opere
pubbliche). E poi laddove la spesa pubblica non
incide significativamente sul circuito del
reddito: la spesa erogata per mantenere rendite
di posizione che utilizzano in modo inefficiente
le risorse, o quella che sostiene redditi di
fasce sociali a bassa propensione marginale al
consumo (p. es. sostegni al reddito erogati a
categorie sociali che non ne avrebbero realmente
bisogno). Tutto ciò che sta sotto tali limiti
andrebbe autorizzato. Quindi non solo gli
investimenti sui fattori di offerta, ma anche la
spesa pubblica per il sostegno della domanda. Ad
iniziare dal reddito minimo garantito.